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Scadenza della firma digitale e il destino degli atti già firmati
Data: 26-06-2021
Scadenza della firma digitale e il destino degli atti già firmati
| Data Pubbl. 26/06/2021 || Data Aggiorn. 28/06/2021 |
*L'articolo è stato anche pubblicato sulla riviste
dirittoitaliano.com
avvocatoandreani.it
Una delle insidie, o baco, del sistema di regolazione della dimensione telematica del processo, sta nella possibile incompatibilità tra la durata dei processi e la durata della firma digitale.
La firma digitale o, per meglio dire, il certificato di firma, si sa, ha una scadenza (tre anni in genere) e, in realtà, pare che al momento di rinnovarla essa non si rinnovi, poiché il cd. rinnovo consiste di fatto nella emissione di un nuovo “certificato di firma qualificata”, ultroneo e diverso da quello scaduto.
Si badi, a scadere in tre anni è il certificato dal momento in cui lo si è acquistato, è quindi possibile firmare un atto e il giorno dopo la firma risultare scaduta, perché sono passati tre anni dal suo originario acquisto.
Ci si accorge di tutto ciò quando, per un motivo o per un altro, si deposita nel processo un atto che il sistema informatico sottopone a verifica della firma, e ne sortisce un messaggio di errore.
Si era insomma firmato quell’atto con un certificato di firma vigente, ma al tempo del deposito esso è scaduto.
Non accade sovente. Accade per es. quando si migrano in appello gli atti firmati digitalmente anni addietro in primo grado.
Ma può non dipendere dalle lungaggini del processo.
Può per es. accadere che la firma scada tra la notificazione dell’atto di citazione e il suo deposito al momento della costituzione o nella altre variopinte vicende che il lettore avrà modo di immaginare.
Come per es. quando si deposita in commissione tributaria un atto notificato cinque mesi prima a cagione del termine dilatorio, di difesa e mediazione, tra notifica e costituzione.
Il problema deriva da una semplice notazione: mentre la firma impugnando una penna all’inchiostro non scade mai, nemmeno dopo la morte del firmatario, la firma digitale che si appone impugnando un pennino usb scade ed ha anche una scadenza piuttosto breve per ragioni tecniche o economiche che non ci competono.
Il rimedio che per primo viene all’immagine di chi immagina come poter risolvere il problema, come se l’avvocato in assenza di soccorso legislativo avesse il compito di un moderno McGyver da scrivania, è quello di ri-firmare il medesimo documento informatico e depositarlo con la nuova firma.
Ma è rimedio fallace e pertanto pericoloso.
Sarebbe come se nel vecchio mondo analogico-cartaceo si ristampasse e rifirmasse di pugno un documento che s’era perso, con i deleteri effetti giuridici che ciò comporterebbe a seconda delle fattispecie in cui una tale operazione si incastra, ivi compresa l’astratta configurabilità di un falso.
L’unico rimedio, al momento, pare quello dell’attestazione di conformità.
Ma non è sempre applicabile, per via del mancato coordinamento e della decodificazione delle variopinte norme sul processo telematico, sparse qua e là, formulate da torri d’avorio, non affatto raccordate con le esigenze pratiche di chi veramente opera nel diritto.
Per es., non è così pacifica e priva di criticità l’idea che si possa notificare telematicamente una citazione e poi depositarne una copia dichiarata conforme (perché medio tempore è scaduta la firma della prima).
Le norme, sull’attestazione di conformità dei documenti telematici, prevedono tale potere, in capo all’avvocato, solo per gli atti (non i documenti) in uscita dai registri/fascicoli informatici, e non in ingresso come nell’esempio, salvo che per gli atti nativi analogici/cartacei.
Per cui, a rigore, se si è notificato per via analogica-cartacea, allora se ne può depositare telematicamente la copia attestandola conforme.
Se invece si è notificato telematicamente (nelle notifiche in proprio per es.) una citazione nativa digitale, allora si dovrebbe depositare in giudizio la stessa citazione oggetto della notifica così come la sua relata (cd. duplicati informatici).
L’avvocato, ad oggi, non può attestare la conformità dell’atto digitale depositato all’atto digitale prima notificato, così come non potrebbe, come non può, depositare una mera stampa digitale (pdf) dell’esito delle notifiche (buste di accettazione e consegna) ma deve depositare le buste medesime (cosa alquanto ardua per chi non ne ha dimestichezza).
Da notare che nel rito tributario telematico, al contrario, l’avvocato deposita la stampa (pdf) dell’esito delle notifiche dichiarandola conforme, ma non ha la possibilità, nemmeno tecnica, di depositare le buste in sé (in formato .msg, ecc.)
Quindi, se nel tempo di mezzo, tra la notificazione e la costituzione in giudizio, la firma scade, allora si porrà il problema di come e cosa depositare. E ciò anche in ambito tributario, per il ricorso, a distanza di 4-5 mesi.
Tentando di depositare il duplicato (originale) della citazione/ricorso cui fu apposta la firma ora scaduta, inserendola come si dovrebbe quale “atto principale”, è facile prevedere che ne sortirebbe un esito negativo del deposito (probabilmente già coi controlli automatici, cd. terza busta nel processo civile telematico) così rischiando la tardiva coltivazione della causa.
Se si opta per ri-firmare la citazione, dapprima notificata, con un nuovo certificato di firma, allora si crea in realtà un nuovo atto, come se nel vecchio mondo analogico si provvedesse a ri-confenzionare una citazione notificata e non più rinvenuta o divenuta inutilizzabile perché per es. distrutta o stracciata.
Riconfezionandola all'uopo della costituzione, si porrebbe in essere una sorta di falso involontario, insomma.
In assenza di miglior suggerimento, sarebbe allora il caso di rinnovare la citazione sottoscrivendola con la nuova firma, per poi depositarla senza incorrere in questo baco del sistema.
Diverso il discorso per la migrazione dal fascicolo di primo grado al secondo nel processo civile (nel tributario il fascicolo non ha necessità di migrare), poiché gli atti un tempo siglati con firma ora scaduta (memorie istruttorie, conclusionali, citazione di primo grado, ecc.) sono estratti da un fascicolo informatico (quello di primo grado).
In tal caso basta crearne delle copie informatiche e attestarne la conformità, come consentito, questa volta sì, all’avvocato.
Se si omette di attestarne la conformità, sarebbe come se, nel mondo antico del cartaceo, si fossero depositate delle mere copie informi, e non gli originali degli atti del fascicolo di primo grado, con le conseguenze che ne deriverebbero in termini di regolarità o meno della costituzione.
Nei casi in cui non v’è rimedio, o si è incorsi in errore non altrimenti rimediabile, la soluzione non tanto peregrina, che qui si azzarda provocatoriamente, sarebbe quella di chiedere al giudice che l’atto portante una firma scaduta sia giuridicamente qualificabile e qualificato con la stessa valenza legale dell’atto originariamente firmato, giammai come un atto privo di firma o comunque informe.
Tale qualificazione presta il fianco al fatto che una firma scaduta, per ciò stesso, non può essere verificata con immediatezza, e tale circostanza potrebbe divenire critica e pericolosa in presenza per es. di apposita eccezione di controparte, o nei vari casi in cui in ipotesi è il giudice che dovrebbe verificarla d’ufficio.
In questi casi la procedura di verifica sortirebbe un messaggio del tipo: “Il certificato non è attendibile - Il certificato è scaduto o non ancora valido”.
Allora, un rimedio estremo sarebbe quello della consulenza tecnica informatica.
Situazioni critiche quelle appena immaginate, e da evitare, che comporterebbero uno sforzo esegetico o probatorio eccezionale, come eccezionali sono i casi esaminati e inerenti esclusivamente la dimensione informatica del processo.
Criticità che riguardano, sia detto per inciso e per chiudere in bellezza, anche gli atti e i provvedimenti del giudice, sottoscritti ma scaduti.
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Una delle insidie, o baco, del sistema di regolazione della dimensione telematica del processo, sta nella possibile incompatibilità tra la durata dei processi e la durata della firma digitale.
La firma digitale o, per meglio dire, il certificato di firma, si sa, ha una scadenza (tre anni in genere) e, in realtà, pare che al momento di rinnovarla essa non si rinnovi, poiché il cd. rinnovo consiste di fatto nella emissione di un nuovo “certificato di firma qualificata”, ultroneo e diverso da quello scaduto.
Si badi, a scadere in tre anni è il certificato dal momento in cui lo si è acquistato, è quindi possibile firmare un atto e il giorno dopo la firma risultare scaduta, perché sono passati tre anni dal suo originario acquisto.
Ci si accorge di tutto ciò quando, per un motivo o per un altro, si deposita nel processo un atto che il sistema informatico sottopone a verifica della firma, e ne sortisce un messaggio di errore.
Si era insomma firmato quell’atto con un certificato di firma vigente, ma al tempo del deposito esso è scaduto.
Non accade sovente. Accade per es. quando si migrano in appello gli atti firmati digitalmente anni addietro in primo grado.
Ma può non dipendere dalle lungaggini del processo.
Può per es. accadere che la firma scada tra la notificazione dell’atto di citazione e il suo deposito al momento della costituzione o nella altre variopinte vicende che il lettore avrà modo di immaginare.
Come per es. quando si deposita in commissione tributaria un atto notificato cinque mesi prima a cagione del termine dilatorio, di difesa e mediazione, tra notifica e costituzione.
Il problema deriva da una semplice notazione: mentre la firma impugnando una penna all’inchiostro non scade mai, nemmeno dopo la morte del firmatario, la firma digitale che si appone impugnando un pennino usb scade ed ha anche una scadenza piuttosto breve per ragioni tecniche o economiche che non ci competono.
Il rimedio che per primo viene all’immagine di chi immagina come poter risolvere il problema, come se l’avvocato in assenza di soccorso legislativo avesse il compito di un moderno McGyver da scrivania, è quello di ri-firmare il medesimo documento informatico e depositarlo con la nuova firma.
Ma è rimedio fallace e pertanto pericoloso.
Sarebbe come se nel vecchio mondo analogico-cartaceo si ristampasse e rifirmasse di pugno un documento che s’era perso, con i deleteri effetti giuridici che ciò comporterebbe a seconda delle fattispecie in cui una tale operazione si incastra, ivi compresa l’astratta configurabilità di un falso.
L’unico rimedio, al momento, pare quello dell’attestazione di conformità.
Ma non è sempre applicabile, per via del mancato coordinamento e della decodificazione delle variopinte norme sul processo telematico, sparse qua e là, formulate da torri d’avorio, non affatto raccordate con le esigenze pratiche di chi veramente opera nel diritto.
Per es., non è così pacifica e priva di criticità l’idea che si possa notificare telematicamente una citazione e poi depositarne una copia dichiarata conforme (perché medio tempore è scaduta la firma della prima).
Le norme, sull’attestazione di conformità dei documenti telematici, prevedono tale potere, in capo all’avvocato, solo per gli atti (non i documenti) in uscita dai registri/fascicoli informatici, e non in ingresso come nell’esempio, salvo che per gli atti nativi analogici/cartacei.
Per cui, a rigore, se si è notificato per via analogica-cartacea, allora se ne può depositare telematicamente la copia attestandola conforme.
Se invece si è notificato telematicamente (nelle notifiche in proprio per es.) una citazione nativa digitale, allora si dovrebbe depositare in giudizio la stessa citazione oggetto della notifica così come la sua relata (cd. duplicati informatici).
L’avvocato, ad oggi, non può attestare la conformità dell’atto digitale depositato all’atto digitale prima notificato, così come non potrebbe, come non può, depositare una mera stampa digitale (pdf) dell’esito delle notifiche (buste di accettazione e consegna) ma deve depositare le buste medesime (cosa alquanto ardua per chi non ne ha dimestichezza).
Da notare che nel rito tributario telematico, al contrario, l’avvocato deposita la stampa (pdf) dell’esito delle notifiche dichiarandola conforme, ma non ha la possibilità, nemmeno tecnica, di depositare le buste in sé (in formato .msg, ecc.)
Quindi, se nel tempo di mezzo, tra la notificazione e la costituzione in giudizio, la firma scade, allora si porrà il problema di come e cosa depositare. E ciò anche in ambito tributario, per il ricorso, a distanza di 4-5 mesi.
Tentando di depositare il duplicato (originale) della citazione/ricorso cui fu apposta la firma ora scaduta, inserendola come si dovrebbe quale “atto principale”, è facile prevedere che ne sortirebbe un esito negativo del deposito (probabilmente già coi controlli automatici, cd. terza busta nel processo civile telematico) così rischiando la tardiva coltivazione della causa.
Se si opta per ri-firmare la citazione, dapprima notificata, con un nuovo certificato di firma, allora si crea in realtà un nuovo atto, come se nel vecchio mondo analogico si provvedesse a ri-confenzionare una citazione notificata e non più rinvenuta o divenuta inutilizzabile perché per es. distrutta o stracciata.
Riconfezionandola all'uopo della costituzione, si porrebbe in essere una sorta di falso involontario, insomma.
In assenza di miglior suggerimento, sarebbe allora il caso di rinnovare la citazione sottoscrivendola con la nuova firma, per poi depositarla senza incorrere in questo baco del sistema.
Diverso il discorso per la migrazione dal fascicolo di primo grado al secondo nel processo civile (nel tributario il fascicolo non ha necessità di migrare), poiché gli atti un tempo siglati con firma ora scaduta (memorie istruttorie, conclusionali, citazione di primo grado, ecc.) sono estratti da un fascicolo informatico (quello di primo grado).
In tal caso basta crearne delle copie informatiche e attestarne la conformità, come consentito, questa volta sì, all’avvocato.
Se si omette di attestarne la conformità, sarebbe come se, nel mondo antico del cartaceo, si fossero depositate delle mere copie informi, e non gli originali degli atti del fascicolo di primo grado, con le conseguenze che ne deriverebbero in termini di regolarità o meno della costituzione.
Nei casi in cui non v’è rimedio, o si è incorsi in errore non altrimenti rimediabile, la soluzione non tanto peregrina, che qui si azzarda provocatoriamente, sarebbe quella di chiedere al giudice che l’atto portante una firma scaduta sia giuridicamente qualificabile e qualificato con la stessa valenza legale dell’atto originariamente firmato, giammai come un atto privo di firma o comunque informe.
Tale qualificazione presta il fianco al fatto che una firma scaduta, per ciò stesso, non può essere verificata con immediatezza, e tale circostanza potrebbe divenire critica e pericolosa in presenza per es. di apposita eccezione di controparte, o nei vari casi in cui in ipotesi è il giudice che dovrebbe verificarla d’ufficio.
In questi casi la procedura di verifica sortirebbe un messaggio del tipo: “Il certificato non è attendibile - Il certificato è scaduto o non ancora valido”.
Allora, un rimedio estremo sarebbe quello della consulenza tecnica informatica.
Situazioni critiche quelle appena immaginate, e da evitare, che comporterebbero uno sforzo esegetico o probatorio eccezionale, come eccezionali sono i casi esaminati e inerenti esclusivamente la dimensione informatica del processo.
Criticità che riguardano, sia detto per inciso e per chiudere in bellezza, anche gli atti e i provvedimenti del giudice, sottoscritti ma scaduti.
Luigi Stissi,
avvocato del foro di Catania
luigistissi@tiscali.it
www.studiolegalestissi.it
*L'articolo è stato anche pubblicato sulla rivista dirittoitaliano.com
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*L'articolo è stato anche pubblicato sulla rivista dirittoitaliano.com